Monte dei sogni Fiaba di Arthur van Schendel

Il seguente testo è il nono capitolo de Monte dei sogni Fiaba scritta da Arthur van Schendel e pubblicato nel 1913. Albert Verwey – che considerava Arthur van Schendel ‘uno scrittore eccellente’ – scrisse una recensione sulla rivista letteraria De Beweging molto favorevole. Più informazioni in calce.

 

Capitolo IX

Tutti partono per la terra che gìace più in là. L’alldola,
e ciò che Dedan narra intorno al cantore

 

Davanti alla porta, nel fiorito giardino del re, la bella moltitudine era di nuovo adunata, con grandi grida di esultanza e di attesa. Le trombe squillarono fragorose, prima verso oriente, poi verso ponente. Allora sulla porta della torre apparve il Re, chiaro in volto, con la Regina che gli camminava a lato snella e bianca. E, mentre il giubilo della folla brillava nell’aria come un tintinnio d’oro e il caro nome della principessa echeggiava senza tregua, il Re condusse la Regina verso i due bianchi cavalli che, bardati di porpora come s’addice a cavalli regali, erano là ad aspettarli, ed entrambi montarono in sella. Poi il re tese il braccio in alto e le trombe squillando annunciarono che ognuno doveva seguirlo. Il cielo tremò di letizia.

Ma chiara suonò la voce di Regello sbirro, che sopravanzando tutti dal suo piedestallo gridava calmo e per ordine i nomi. I primi a essere chiamati furono il ragazzo, la fanciulla e Tobia, Puikebest e Kaka, Alfrade e Denkmar che uscirono insieme dalla calcae sfilarono in silenzio per l’orobra della porta. Seguirono sotto il sole radioso gli dei, taciturni e freddi, in una schiera imponente. Poi vennero i vecchi a due a due, ornati di verdi corone, deboli ma bramosi di essere svelti. Indi le fate e gli elfi in un leggiadro turbinare di scintillii e colori, da ultimo, a passi pesanti, maestose e soddisfatte, le grosse fiere, leoni e bufali, cammelli e liocorni. E, una volta dentro la porta, tutti tacevano, il chiasso restava nell’aprico giardino.

Sull’altro versante dove il Re e la Regina di nuovo cavalcavano all’aperto, spirava il vento caldo e profumato di una terra ignota, di una terra strana come se ne vedono in sogno una sola volta, due al più, e la luce azzurrina lungi fluiva sfavillando sugli estivi campi in declivio. Il Re avanzava lungo il ruscello e il suo sguardo era fisso e pensoso. La fanciulla canterellava, con gli occhi al movimento delle pieghe nel mantello del Re che le stava davanti, e Reinbern respirava piano, tendendo l’orecchio nell’aria afosa.

D’un tratto la fanciulla lo rattenne: il Re si era fermato. L’araldo accorse e parlò col Re, poi soffiò nella sua tromba e gridò che ora la folla doveva sparpagliarsi e cercare a suo talento Eva Beata, perchè quella era la terra per dove sino al tramonto andava la bella principessa. Poi diede un nuovo squillo, l’aria rimbombò e ronzò, e mille occhi guardarono raggianti .in ogni direzione e mille esseri si misero a sgambettare qua, là, per ogni dove, variopinti e vividi sui freschi campi.

«Noi siamo amici, cerchiamo dunque tutti insieme» disse Denkmar. La sua voce sonò pacata come sempre, ma più bella e profonda, come se giungesse di lontano.

«Da che parte vogliamo andare?»

«Dov’è Peter?» chiese il ragazzo.

«Peter è rimasto indietro a coltivare il suo campo. Nemmeno l’uomo che fa il pane ha voluto venire, ha preferito starsene a vedere Peter lavorare.»

«Avanti allora!» gridò Tobia.

Reinbern confuso raggiunse di corsa la fancìulla. La mattina si faceva calda, la luce raggiava sulla purità del cielo e della terra. I sette avanzavano lungo il ruscello, chiacchierando sottovoce, Rein e la fanciulla un po’ più indietro. Il ragazzo sapeva che stava avvicinandosi alla cosa fra tutte più cara, e desiderava di poter vedere la bontà e la forza fedele degli occhi di Peter. Era una nuova terra, quella per cui andavano: i cespugli vi splendevano con più fervido rigoglio che nel giardino dall’altra parte della porta, il cielo vi scintillava più calmo e profondo; l’aria aveva un dolce sapore nelle loro bocche, e le voci un suono più pieno di prima. Era una terra con ampie ondulazioni collinose e campi opulenti d’erba che nessun piede sino allora aveva mai premuta; gli animali che colà vivevano. si erano certamente rifugiati in qualche parte, perchè nell’ aria passavano respiri. come di creature che àspettassero all’Ingiro dietro i pendii. E Reinbern, con la mano della fanciulla nella sua, pur camminando cercava intorno con lo sguardo, e anche gli altri parlavano poco, ma guardavano in giro e ascoltavano se giungesse qualcosa.

Giunti in cima al poggio per cui stavano salendo si fermarono. Là sotto vi era un piccolo stagno. L’acqua era così limpida che iI loro sguardo vi penetrava senza scorgerne il fondo, e lo specchio della superficie stranamente immobile pareva fosse di cristallo polito. Sulla riva opposta si ergevano giovani arboscelli, appena sbocciati in fiore.

A un tratto un uccellino esultò alto nel cielo e, quanto più saliva nella luce, tanto più puro e aperto cantava il suo trillo dorato, ed egli continuava a salire nella fragile azzurrità, finchè non vi fu altro che cielo e un fievole tremolio di suoni. Tobia, fissava in alto, allungando il collo, Kaka teneva il naso rivolto agli arboscelli dell’altra riva e Reinbern, intenerito di gioia, con le mani sul petto e calde lacrime negli occhi, vedeva dappertutto uno sfarfallio di piccole scintille. Chi si fece udire per prima fu Alfrade. Essa mormorò qualcosa a un essere minuscolo che le stava vicino, e aveva un mantello arancione, sottile come un’ala di farfalla, una catenella d’oro alla cintura e un piccolo flauto in mano.

«Lo aiuterò, lo istraderò e gli insegnerò, perchè io sono il re» egli disse. «Venite tutti qui, guardate l’acqua e ascoltate.»

Quelli si disposero in fila dietro di lui e, guardando ora il suo viso ora il piccolo stagno secondo egli indicava col dito, cosi lo udirono parlare:

«Guardate, questo è lo specchio. Guardate quel fiammeggiare dr porpora là nel profondo. Quello è il respiro, quello è il profumo, quella è la musica che è in tutto il mondo, e più sotto nessuno può vedere. È il respiro, è il profumo di colei che voi cercate. Voi cercate la principessa, la supremamente cara, e, se non l’avrete trovata qui, in questa terra, nei campi e nei boschi che nessuno mai la più rivedrà, sui colli e lungo i burroni che nessuno ritrova una seconda volta, sin dentro i più cupi antri delle rocce che esistono soltanto un attimo, io vi dico che mai, mai non la troverete in qualche parte. Questa terra è la natura che ad ogni istante giunge e sparisce come il respiro di un uomo nell’aria, Guardate ora che splendore, guardate, ecco il Monte.

Nello specchio dell’acqua essi videro l’altissimo Monte sul quale si trovavano: giù in basso l’ampia verde falda piena di piccoli fulgori e fiorita di primavera: poi, più séura, la mediana, alta e calma, avvolta in lucenti n-ebbie d’estate che scendevano lungo i boschi a valle; infine la vetta, color carminio e viola, e fiammeggiante sino a una tenebra ove non c’era più bulla. E tutto il Monte rosseggiò di fiamme, diventò nero, spari.

«Il Monte appare e scompare cosl di repente come voi perdete e ritrovate la principessa. Il fuoco lo fà scomparire, ma il fuoco stesso, da cui esce il respiro, rifà ogni cosa, Guardate quel rogo di porpora, esso è lo stesso alito, la stessa musica che dà vita a tutta la natura. Ora non indugiate oltre, ma andate avanti e cercate. lo verrò con voi, finchè uno dirà dove si deve cercare, perchè chi dice questo sa già il principio della strada. Io mi chiamo Dedan, e sono re e servitore. Venite per di qui lungo la riva, passando a fianco di quegli arboscelli.»

E andò avanti con Alfrade. Gli arboscelli flessuosi e di legno argenteo erano distanti l’uno dall’altro in modo che il sole batteva su tutte le erbe del suolo, e i loro rami con i fiori e bocciuoli vermigli pendevano immobili nell’aria azzurra. Vi era una pace scintillante, ondeggiava un caldo profumo di fiori, carezzevole come dita leggere. Dedan imboccò il suo piccolo flauto e ne trasse poche note che salìrono nel morbido tepore. Poi fu di nuovo silenzio, un silenzio più quieto e caldo che prima. Alfrade chiuse ridendo gli occhi e levò in alto le mani come pregasse. Allora alto, alto nel cielo essi udirono un tenero canto di gioia, e con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il sole .avanzarono lenti dondolandosi, tra gli arboscelli. I pigolii, i gorgheggi, i lisci trilli fluivano via nello spazio assolato sino a impiccolirsi come una ragnatela d’oro o una scintilla dì rugiada, e il canto pareva durare senza fine, eterno. Ogni più lieve e più sottile suono fuggiva verso il sole, com’e il caldo riso di un piccolo raggio. Ma d’un tratto il canto cessò. Essi si fermarono e guardarono la strana terra intorno a loro. E, mentre cosl stavano mirando per ogni parte in tacita meraviglia, Reinbern senti sgorgargli dentro il petto un piccolo suono, ch’e fluttuava lieve in una serica ragnatela di canto. Il viso della fanciulla sfavillò di luce e, quando le labbra di Reinbern si schiusero e la sua voce danzò pura nell’aria, essa pure aperse la bocca, attonita di letizia. Egli cantàva come non sentendo colpa di non sapere ancora la melodia, attento solo a bene seguirla. D’un tratto .ebbe un fremito: aveva veduto qualcosa in cielo. E nella radiosa mattina la sua voce squillò gagliarda e fresca, sali sempre più pura, lieve calò a note più discrete poi, di nuovo balzò dal petto fluendo in uno scintillante impeto di gioia, cosi sonora, cosi superba che all’intorno cento piccoli echi sorsero esultando dietro i cespugli, e lo stormire ridiceva il canto e lo portava oltre l’azzurro pendio. Gli altri ascoltavano muti e intenti, ma Dedan segnava il tempo saltellando lieto ora sull’uno ora sull’altro piede, e Reinbern mentre cantava vedeva per tutto il cielo piccoli splendori, cupe scintille accese e sapeva che quelli erano occhi che guardavano, gli occhi della carissima. E sentiva il cuore grande e pesante, e uviso in fiamme, e la suavoce risonare pura e bella come se un altro cantasse dentro di lui: egli l’ascoltava, cieco di gioia. All’improvviso tacque, senza più fiato, e agitò le braccia per rinfrescarsi con la brezza profumata.

Tobia lanciò in alto il suo stridulo canto, guardò ciascuno e disse che tutti dovevano fare coro. A Rein rise piano il cuore, ma la sua voce tornò a squillare chiara; allora la fanciulla lo accompagnò, timidamente ma con fervore di bontà, come se cantasse per una bambola, e, Puikebest la segui attento, con tono ancora più basso e discreto. E, l’uno ascoltando l’altro, l’uno irrompendo con maggior letizia quando il canto dell’altro si spegneva in un tremolio, fra loro tre empivano l’aria di sempre nuova musica, e tintinnii dorati e fresco gorgheggiare, mentre Kaka con le larghe note dei suoi latrati segnava a tempo le pause come con un tamburo e Tobia, a tratti e sempre di sorpresa, scoccava verso il cielo i dardi del suo fiero canto. Soltanto Alfrade e Denkmar stavano zitti.

Quando alla fine il canto si smorzò pago nelle ultime note ed essi fiatarono soltanto, ancora lo udirono gorgheggiare piano tra le erbe vicine.

Poi anche l’eco cessò.

Denkmar guardava fisso. E la quiete era grande, perchè nulla si moveva nella campagna all’intorno. Ma ecco, Denkmar alzò la testa e fece un cenno. Tutti scorsero un uccellino che veniva verso di loro saltellando sull’erba e prima di ogni saltino aspettava un attimo per guardarsi in giro. Si fermò davanti ai piedi di Reinbern e alzò verso di lui gli occhietti scintillanti. Allora Reinbern, circonfuso di chiara luce in mezzo agli altri, sorrise e mormorò con gioia:

«So dove dobbiamo cercare. Se canteremo siamo sicuri di trovarla!»

Dedan alzò le braccia esultante.

«Egli sa, egli sa! solo che sappiate il principio, la trovate certamente. Io vi ho condotti vicino a Blido e così vi ho insegnato a cantare. Chi sa cantare trova sempre la strada.»

«Ma – chiese Denkmar – sai di certo che a ognuno basta cantare per trovare ciò che cerca?»

«Domandalo un po’ a Blido l’allodola!»

«Già! Un uccello è nato per cantare. Ma un asino, no.»

«Ognuno deve cantare – gridò Tobia – cantare è sempre bello.»

L’allodola tirò dentro le zampine e si rassettò leggera nell’erba, col petto contro gli steli flessibili e lucenti e la testina in alto; poi socchiuse gli occhi, e un chiaro trillo scivolò sul campo come un filo d’argento con pendule perline, sali più alto calò più quieto, come una farfalla che folleggia. Rein e la fanciulla si piegarono sulle ginocchia sino a toccare l’erba per essere più vicini a quella pura fonte di melodia. Anche gli altri si abbassarono sino al suolo e ascoltarono, l’uno a fianco dell’altro, senza muoversi: il sole raggiava su di loro e sulle piante, e la brezza che muove anche gli alberi più piccoli cosicchè il lieto seme vola tremando nell’ aria e la profuma, passava a soffi sui loro volti. E questo udirono:

«Il sole! alto è il cielo, alta come il cielo è la voce del mio cuore!

Nascendo, il sole io vidi, e quel primo raggio per sempre mi è rimasto nel cuore, nella testa, nella bocca, per sempreperchè il fuoco del sole mai non può perire. Nascendo udii la voce del mio cuore, e dalla gola effusi in dono tutto ciò che avevo di canto. Ma mai, mai donai abbastanza: quanto più canto io davo al puro tenero mattino, al cieco sacro meriggio, alla buona quieta sera, tanto più calma ‘e sonora diventava la voce del mio cuore, tanto più ardente e grave il fuoco che dentro porto. Che cosa brucia in me, il sole o il cuore mio? Quando nacqui il sole mi accese del suo fuoco, del suo car-o fuoco che accarezza, ed io nel cuore udii quel riso che è grande come tutto il mondo e mai non può perire. Che cosa è che mi arde, il sole del cielo o la gioia che entra in me ogni mattina, non appena i miei occhi si aprono e io mi sveglio e canto?

Di notte, quando più grande è il silenzio, a volte io apro gli occhi nel buio e lontano lontano odo un piccolo brusio, dalle nubi o dalla selva dietro i monti dove nessuno può vedere; so che subito esso si ripeterà, ma fà tanto buio che torno ad assopirmi e sogno. Allora odo voci che ‘passano, voci che sussurrano, lusingano, bramano, gemono e ascolto fìnchè non so più nulla. Ma d’un tratto dentro di me balza la fresca gioia ridesta, ho un sussulto e il cuore mi batte forte; guardo in alto e vedo il cielo struggersi in vapori argentei e gialli e fuggitivi veli di roseo splendore. Sento caldo, mi tuffo nella frescura, so che fra un momento torne; ò a cantare. Una luce dardeggia lungo il cielo, e acquieta il mondo. Un attimo, un attimo soltanto, perchè poi tutto all’intorno in alto e in. basso, splende e scintilla, irrompe la fiorita aurora, la’ sua veste di rose ruscella ricca, ed io odo la mia voce, la mia voce. ‘Spiego te ‘ali ‘e salgo alta e fresca verso l’aurora, con ciò che ho di più caro, la mia voce. E negli occhi prendo la luce del nuovo sole, e non vedo più nulla e canto, alta, alta nel cielo.

Quando ridiscendo alla rugiada e ai fiori della’ terra, il mattino s’è già messo la sua nuova candida veste. Allora, immersa nell’erba per me è una delizia mirare all’intornola luce. che appare violetta e quieta sotto gli steli, crea: magicamente strane figurine sulla sabbia, scivola nell’aria e scorre sui campi tenera saziando. E nella mia solitudine non posso altro che cantare piano, il mio cuore è grande.. ma piccolo e accorato il canto.

Pòi turgido cresce il mezzodì, forte dominatore di tutto ciò che vive, orgoglioso, possente e tende, tende l’arco del cielo finchè la terra diventa muta e grave di meraviglia e si odono soltanto piccoli tenui suoni. Nelle nascoste cavità, nelle più segrete ombre delle piante sprizzano acuti diamanti, e io che ho veduto il massimo di luce, allora vedo solo la purpurea profondità del mio cuore. Oh, ogni giorno, ogni mezzo di il fuoco mi scaglia in un grido verso l’alto, verso lassù dove non è terra, e io non so più nulla, non v’è più nulla tranne la mia voce, la mia voce e il sole. Lassù mi libro, dove non ci son più le nubi, le mie ali aperte riposano e la mia testa è fresca, lassù compongo un gioco con le note più care, più mie che fuggono via senza mai tornare, che nessuno tranne il sole ode; lassù vivo nella luce e canto, canto…

Ma nel tardo meriggio, quando la sera già comincia a radunare il suo gregge, quando odo le mandre chiamare dai pascoli, e risa dai villaggi e l’ampio canto degli alberi nella solitudine, allora ho il trillo più soave e più meraviglioso.

Il cielo s’impiccolisce e si scolara, nel mio cuore, vaga un piccolo canto che si scolara e langue. A ponente ondeggia una molle nebbia di crepuscolo, là il giorno abbrucia in silenzio il suo oro, e fiamme e faville cadono sul vermiglio sole che scende in un agitar di veli, e sul mondo fluttua il suo respiro, il suo profumo soave di rimpianto.

Nel mio petto si desta un piccolo suono, e come un bimbo che non sa se deve piangere o ridere, geme piano, dolente.

Ma allora si schiude il cielo che porto in me, e sicura m’innalzo a volo, là dove –  posso vedere il sole sino all’ultimo, a volte odo io stessa la mia musica, sono sorda e sola, ma egli ode tutto, tutto quel che io canto e arde e fìarn meggia incontro a me fìnchè si frange e cade, come una goccia di sangue, come una goccia di luce. E il suo sospiro avvolge d’un soffio tutto il mondo. Col suo rogo nell’ anima ridiscendo all’ ombra, un viandante che passa nei campi trasale e affisa lo sguardo e sogna. Il sole stesso canta dalla mia gola…

Oh, ogni giorno, ogni mattino, ogni meriggio e sera nient’altro che cantare, cantare il mio diletto, il sole.»

E Blido balzò esultando d’in mezzo a loro verso la luce immensa.

Reinbern fissava il cielo, la fanciulla che gli era a lato i con le mani giunte, lo guardava. Egli non pensava, ma aspettava nel silenzio di luce. Ed ecco si rizzò il piccolo Dedan e così parlò, solenne e a bassa voce, tenendo un dito alzato:

«Ora ascoltate ciò che vi racconterò intorno a

Il cantore e  il canto

come ciò fu al principio e come sarà sino alla fine. Blido è soltanto un uccellino che non può altro che cantare, non sa nemmeno che migliaia di uccelli fanno come lui, e degli uomini ha udito soltanto poche risa lontane. Gli uomini fanno altro ancora.

Or è molto tempo essi si trovarono insieme per la prima volta, ridenti e lieti, perchè le campagne erano fertili e belle, piene di alberi e di piante e limpidi fiumi. E batterono le mani  e danzarono l’uno con l’altro per l’intera giornata. Ma la mattina dopo presero aratri e buoi e lavorarono a fare campi: tutti, giovani e vecchi, tranne uno solo, che doveva trovare il canto. Lavorarono senza posa dall’ alba sino a tardi, e quella sera furono troppo stanchi per danzare. Ma, udite! Mentre stavano tutti seduti in cerchio a mangiare sotto gli alberi echeggiò una voce bella, più grande e calda che quella dell’usignolo; una fanciulla s’intenerì, si alzò dal cerchio e se ne andò piangendo. Allora capirono che era la voce di uno dei loro, di un adolescente, il più giovane, il più bello, uno sventato che rideva o piangeva per nulla, correva a guardare le nubi quando c’era un lavoro faticoso, che diceva follie o giocava coi bimbi quando gli eiani parlavano gravemente. E taluni ascoltando approvavano con la testa, contenti, compiaciuti di quel grato suono. Quando l’indomani per tempo tornarono ai campi chiamarono seco perchè guidasse l’aratro. Ma egli rise ece udire il bel suono che aveva ritrovato. Ed essi, mentre impiegavano la forza delle braccia, sudando e ansando, scambiavano a tratti sorrisi o guardavano dalla parte dove l’udivano, ora qui, ora là, dietro i boschetti o giù vicino al fìume, e qualcuno accompagnava canticchiando, e tutti non sentivano la stanchezza delle braccia. Cosi fu per li giorno della primavera e dell’estate. Poi venne il tempo accogliere ciò che essi avevano seminato e curato, e sole, gia e terra fatto crescere. Allora il giovane cantore lasciò i suoi angoli quieti, corse al campo e, attonito, rapito dalla bionda odorosa opulenza, si empi le braccia di spighe donde cadevano i grossi grani. Preparò i covoni, più spedito e ilare di ogni altro, se li caricò sul dorso e instancabile li portò alla battitura. Fu il primo che curvo agitò il coreggiato, gli altri a tratti giocavano facendo quella, ma egli taceva e non prendeva riposo; qualcuno gridò che ora doveva far udire il suo bel suono, ora che avevano davanti la splendida messe, ma egli fu muto e lavorò. Quando tutto il lavoro fu finito e il nuovo grano accolto in monticelli  splendenti, tutti, uomini e donne, si prepararono per la festa della danza e del cibo e del bere. Allora in mezzo a loro si levò l’adolescente e alzò le braccia cantò. Era il suo primo canto e il più bello, e sarà il cantico dei cantici, finchè vivranno uomini.

Cantò, dapprima sussurrando, con le braccia fitte e giunte: cantò la buona grande terra dove uomini vanno e uomini riposano, la mite terra che riceve le semenze e prende cura e le fà crescere con abbondanza per sa e gli uomini. Cantò, con le braccia aperte, il cielo dove ogni giorno sorge il sole, che accarezza la terra e illumina e riscalda gli uomini cosicchè essi si vedono e si amano l’un l’altro; il cielo donde scende la pura pioggia che rinfresca e ristora la terra secca e gli uomini languenti. Cantò l’immensa felicità degli uomini che lavoravano dopo il loro. sonno; e dopo il loro lavoro potevano danzare e riposare. E sulla fine la sua voce risuonò grave e ampia sui campi, leggera e alta sopra gli alberi: era un nuovo canto, felice eppure quieto di segreta tristezza, del desiderio che non sa dove sia la fine, un sacro canto di languore, e tutti quelli che erano là, s’inginocchiarono chiudendo gli occhi. Il cantore aveva trovato il nuovo canto di grazie, di lode, di gioia per la cosa più bella che l’uomo possa mai pensare.

Quando tacque e si sedette, un bimbo gli porse da bere, una fanciulla gli intrecciò dei fiori, un vecchio gli diede il suo bastone. E la festa cominciò, ma egli era troppo stanco per danzare.

Quando fu di nuovo il tempo dell’aratro e della semina ed egli volle lavorare con gli altri nel campo, quelli lo mandarono via perchè nei boschetti all’intorno cantasse a loro diletto. Ed egli non potendo lavorare come uno di loro, sedette triste e solo, e dal suo lungo meditare echeggiò una sola volta una canzone accorata.

Allora parti e viaggiò tutto il mondo, desiderando e, cercando la cosa più bella che aveva un giorno vista, e cantando sino a meravigliare chi l’udiva. Quando tornò nella dolce terra della sua giovinezza per riposarvi, ebbe per saluto i canti e i lieti suoni che aveva insegnati agli amici.

E come fu per questo cantore, cosi sarà sino alla fine dei tempi: il cantore trova l’alto cantico, la lode della cosa più bella che gli uomini possano concepire. Essi lavorano e gli fanno coro, egli v:à avanti e cerca, col fuoco in petto, desiderando un cantico ancor più alto. Tra i gìovani è il più animoso, il più vivace, tra i vecchi và solitario pensando che cosa sia più bello, se cantare come l’allodola lungi nella luce del sole, ovvero lavorare sulla terra con gli altri per gli altri. Ma bimbi e saggi esaltano lasua felicità.»

E Dedan guardò a lungo in silenzio il ragazzo fìnchè Reinbern si piegò da un lato e pose la testa in grembo alla fanciulla, piangendo piano in cuore.

Denkmar s’alzò, scrollò le orecchie e disse:

«Per quanto io non sappia cantare, posso pensare di cantare. Per questo so che Dedan ha ragione: molto può il ragazzo trovare nel canto, ma dovrà più a lungo e più lontano cercare la principessa. Il mio dovere è di pensare, di ponderare e di decidere dove essa può trovarsi. Addio, ragazzo, la mia ricerca ormai sarà diversa dalla tua e io pure devo andare avanti.»

«Avanti? sì, avanti! – gridò Tobia balzando ritto – abbiamo troppo poltrito qui. Vieni con me, ragazzo. Oppure se vuoi andar da solo, stà bene in ascolto mentre vai se odi il mio grido: non appena la troveremo; udrai il mio canto, accorri subito allora.»

«Io devo cercare da me» rispose Reinbern.

«Addio, allora! Addio!» gridarono Denkmar e Tobia.

E il gallo se ne andò impettito a grandi passi, guardando diritto innanzi a sè: l’asino lo segui calmo, muovendo la testa in su e in giù. Quando essi furono spariti dietro la cresta del colle, Alfrade che stava dondolando fra piccoli arbusti, chiamò a sè Reinbern con un cenno; egli era tre voIte più grande di lei, cosicchè essa dovette allungare il collo mentre gli sussurrava:

«Non aspettare, và! Puikebest, Kaka e io restiamo ancora con te.»

Gli occhi le brillavano di tenerezza. Reinbern alzò la testa, si mise le mani sui fianchi e gridò agli altri:

«Venite!»

La sua voce suonò fiera e salda, ma anche parve reprimere un sospiro. Dedan si ravvolse nel suo mantello, fece col flauto un piccolo gesto che voleva dire: non scordarti! salutò e tornò indietro.

Allora Reinbern, mentre dentro di sè cominciava a udire il gioco di quel soave suono che gli solo capiva, avanzò tra i calmi arboscelli, e gli altri lo seguirono, ultima la piccola silfide. Ma, là dove gli arboscelli diventarono più radi e il terreno andava giù, formando una valle stretta e profonda, Kaka d’un tratto fece un balzo e si arrestò davanti al ragazzo, appuntando le orecchie, con gli occhi spalancati e un fremito nel naso.

Dall’altro lato della valle si stendeva un gran bosco, i cui alberi possenti si ergevano alti e senza moto di fronde.

Reinbern allungò adagio adagio il dito vèrso un tronco che aveva soltanto un ramoscello basso, la fanciulla gli si fece più vicino, ed entrambi trattennero il respiro. Allora videro più in là, dietro altri alberi, una piccola cosa lucente che spariva. Reinbern corse veloce avanti, giù per la valle, con un tremolio di canto sulle labbra, e gli altri lo seguirono, Alfrade saltellando lieta.

Nota dat traduttore

I nomi di molti personaggi di «De berg van droomen» possono essere tradotti, con vantaggio per la spiegazione del loro senso simbolico. Così, ad esempio, «Puikebes» corrisponde a «fior fiore, quintessenza di cose buone» (composto di « puik.» sostantivo arcaico e « best » aggettivo superlativo, entrambi esprimenti l’idea di « ottimo»). Regel, il nome dello sbirro, significa regola, norma. Denkmar, evidentemente contratto da «denk-maar» vorrebbe dire «colui che non fà che pensare, il cogitabondo». Anche in Reinbern si può scorgere rappresentata l’idea di «puro» (rein) e quella di ragazzo (radice «baren» generare: danese «bar» appunto ragazzo).

 

 

Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931

La novella di Arthur van Schendel, Notturno fu pubblicato in nederlandese con il titolo “Nachtmuziek” nel 1931. Due anni dopo fu tradotto da sua figlia Corinna e pubblicato in una rivista genovese di poesia.

 

Notturno

Or legate i cavalli nel buio del bosco dove stella non li sgomenti e la bianchezza loro non abbagli occhio mortale o farfalla o gufo. Testa a testa, il circolo chiudete. Le scintille spegnete; poi su code e criniere, prudenti e pronte, senza fruscio, le gualdrappe spiegate.

– Vedi? Intrecciato s’è il cerchio, Morgana.

– Su, balzando per rami e fogliame non destate uccelli, dalle treccie torcete rugiada, dalle dita stillate la luce; intorno i veli, diritti gli occhi. Prima che i pianeti abbiano percorso la loro curva, una voce umana chiamerà al di là della notte; un secolo chiamerà, lungo quanto il mignolo mio e tacerà la notte, senza altro suono che di crescere e perire. Ma se avanti quella voce si spigne e penetra in noi, bene addentro là dove i germi stan chiusi, se una di noi trasale per fame o per sete, e domanda di nascere, ascoltate allora la voce mia; suono v’è in noi che l’umano sorpassa. Zitte, senza tema, tutte all’erta, questa con quella come ognuno sa, due a due, tre a tre, contate il numero come avete imparato. Non tremate, mie piccole, mie non ancor nate, ecco lontano il chiarore.

Lucentezza attutita, un uomo viene guizzando come pesce dal fondo; verde è il suo alone, adesso, verde diventa la notte. Ma a noi il bianco, il bianco ai nostri cavalli. Ecco: osservate, un gigante in armatura scagliosa, esita, si smarrisce, ora si ritrae, fugge, atterrito dal tronco luccicante. Se pietà o  misericordia fosse in noi, doni celesti a tutto ciò che respira, rintronerebbe il bosco di pianti e di lamenti per il tormento che qui si sta soffrendo. Non spingete, non chiedete: curiosità ci porta sventura. Ecco: si ferma, in agguato ascolta, stupito del proprio splendore. Ora s’avanza veloce e furtivo – rifulgono i tronchi – verde animale strisciante, ingordo di preda. Nei vostri veli, compagne, attendete la voce, grande più che di leone assetato o di frenetico cane. Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, senza principio nè fine.

– Tranquille, amiche: quiete restate, come i cavalli. Là, sotto l’abete, dallo smeraldo, giunge ora la voce.

– Io chiamo, cerco, povero sotitario.

– Una piccola voce, temuta più d’una grande. Rispondiamo, ognuna a nostra volta, dieci a dieci, e altro non occorre che l’arpa, il piffero e il violino.

– Chi chiama? Olà, chi cerca nella notte? Olà, rispondi! Buona gente è qui, per lo sperduto che è buono. Apprèssati dove il buio scintilla alla vista e suona il tintinnìo.

– Infelice invoco, io che cerco.

– Viandante, apprèssati, va dove l’oscurità si fa più oscura, dove verde diventa e lucente, e verde ancora e buia, giù sotto le foglie. Non chiamare forte, non chiamare un nome; ma chiedi, chiedi ciò che cerchi, tu re dei viventi. Balsamo e cinguettìi abbiamo per risposta.

– Lei voglio, lei cerco per tutto il mondo, lei chiamo anche al di là dei limiti del giorno e della notte.

– Adagio intona, o piffero, un canto antico per rammentar qualcosa; l’arpa accanto: in fondo il violino.

– Piccolo è il paese dove in gioventù abitai: una collina e intorno l’acqua con mormorìo d’alberi e d’onde. Una donna mi aveva portato e dimenticato là, nessuno vedevo con cui giocare, fuorchè l’acqua, la sabbia, foglie e coccole rosse e gialle. Ma nelle grotte, nelle verdi grotte giù presso il mare, imparai a ridere e zufolare. Buccine e conchiglie trovai che musica chiamavan dall’orizzonte, alta o bassa; e una conchiglia v’era, dentellata e bianca, che una volta s’aprì al mattino e ne usci colei che io non scordai più, colei che soltanto era fruscio: e via volò, nube senza nome, per sempre innominata. Un tintinnìo fugace, un riso al crepuscolo, un rintocco nel buio, uno stormire di foglie: chiedete il suo nome al pipistrello o all’usignuolo.

– Suonatore, dove sei? Non spezzarmi il cuore, dimmi che hai visto, dimmi dov’è.

– Non appressarti, forestiero, fermati! Il tuo cuore sa d’amaro, il tuo colore è verde, vecchio ti fa il cercare.

– Dimmi dov’è. Ho sentito di una figlia di re, senza nome, che dorme e aspetta che io la desti. Dimmi dove posso trovarla.

– Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, ma il suo petto già trema.

– Sussurra tra le corde una frescura, arpa, una voce della nostra foresta.

– Querce e faggi, abeti e pini, felci e muschio, poi, sull’orlo, betulle trasparenti e pioppi. Chi vide tutte le foglie, chi conosce tutti i frutti, tutti i semi? La savia cingallegra da Merlino istruita, l’operoso picchio che indaga nelle fessure, invano sono in cerca di segreti. Ciò che respira, vive e brama, talvolta è molto sciocco, vuol scoprir tutto e tutto sapere, non dubita dell’esistenza di cosa che teme l’esser conosciuta dai viventi. Alberi e felci l’un per l’altro hanno segreti, in tronchi e fusti oscuramente riposti, che con loro in polvere si sfanno; nessuno li conoscerà, nessuno intenderà il loro stormire nella brezza, il loro tumulto nella bufera.

Mortale, non sai dunque che chi dorme, una figura vede più radiosa nel sonno di quando appare nello splendore del sole? Udisti di una che dorme e attende il risveglio da voce umana? Non è principessa, non figlia di sovrano: Stellina è più di lei, è sorella, di stelle e segnata d’un nome. Qui la condusse a lieve sonno, tra il fruscio dei rami custode, il genio silvano. Soltanto l’occhio dell’Origine vede ciò che essa vede. Chi il niveo silenzio osa disturbare, chi toccare un santo segreto? Vòltati, forestiero, vòlta, innanzi ad un abisso sei, l’ardore del tuo sguardo troppo avanti si lancia: e ci scotta. Bianche siamo e delicate, noi che vegliamo, ma unghiate siamo, qualora la brama osi violare il sonno sacro. Ristoro ti dà il respiro degli alberi, bevi e rinfrèscati, ma fuggi, fuggi l’illusione.

– Arso dal fuoco devo avanzare; il desìo arretrare non sa: nell’illusione lacciàtemi svanire, in essa abbandonàtemi sino alla fine, finchè sia consunto il volere, il mio volere verso di lei.

– Campanella mattutina, presto, accosta i veli.

– Ella dorme, Morgana, ma sembra che sussurri: con bàttito di cuore.

– Suona, violino, la consolante necessità, redìmilo; e càntagli il dono del pianto.

– Narrare devo degli sperduti, qua e là per boschi e paludi, cercatori che fissarono la fiamma seguìta finchè il crepuscolo giunse, e la sera, con sospiro e singulto di vento? Solo un uccello, alto in cielo, talvolta le ossa di tese mani distingue; in volo sorpassa i luoghi dove soltanto rimase ciò che scolora alla pioggia ed al sole, da volontà e desiderio abbandonato. Sicuro è il guadagno per chi alla fiera si reca, e niente lo stimano i cercatori; ma riflettano un poco se giova penare in cerca di quello che mai non si trova, se a nulla, a nulla, aspirare convenga, Triste è vedere i boccioli morsi dal verme che distrugge, triste il marcire in germe dei mille e mille semi del faggio, triste vedere inmumeri figli di uomini che bramano senza sopportare, che chiamano, afferrano e insistono, senza udire la voce dal fondo, la voce dell’Origine.

Facile sembra loro dei boccioli il formarci e dei semi; ma dell’acre e dell’acerbo, del moto che spinge e produce, nulla sanno.

Guarda nel cuore tuo, tu che cerchi gli enigmi; a lungo errerai tra selve e rovi finchè giungerai ad un lago, nero, insondabile. Là resta ed attendi. Ascolta mormorare quanto è cara la pena, quanto soave il dolore, ristoratore il pianto. Chi questo non udì: il purificato suono del  proprio affanno incessante, chi mai non pianse senza conoscerne causa, e sospirò l’ultima delle lagrime, colui come cieco a tastoni s’aggira nell’orto fiorito dove misurata gli è l’ora di sole, Alla tua gente torna; gelida si fa la notte, venire io odo il mattino. Se troppo hai violento il desiderio, troppo sciocco il pensiero, abbi fiducia nell’umor del tuo occhio. Lacrime ne cadranno senza fine se un giorno il tuo desiderio s’appaghi e il cuore assopito si desti all’incendio struggente del sangue. Ascendi sui venti dell’amore, sublime di pietà diventa l’amante.

– Lagrime ho più di quante io sappia, lagrime sono il mio destino; sempre cercando non ho mai trovato, sempre in modi diversi debbo andare. Se un mistero è quello che io voglio, un’anima sopra la mia, se esaudirmi ella non può, di nuovo camminero, vagando, cercando.

– Campanella mattutino, quale nuova?

– Ella dorme, Morgana, con una lagrima nell’occhio.

– Fuggire dobbiamo, ella nascerà per cercare e non trovare. Il grido dell’uomo è come un sasso caduto nel fondo del lago buio, e chi potrà sapere dove giunga l’increspatura?

– Mortale, ascolta: sono io che parlo, Morgana, sorella di Merlino e custode di germi, di steli, e di semi. Un mistero è in ogni vivente che per molte estati ed inverni crescere deve, prima di svelare un’unica particella, un piccolo colore, un odore, un suono; e più d’uno che alla terra ritorna, del mistero il nucleo neppure sospetta. Poco fuori si manifesterà, ma megliò è aspettare – con palpebre basse, di notte presso una candela – ciò che senza il tuo richiamo da te stesso nascerà. Soltanto quello che vuol nascere, per quanto piccolo all’occhio avrà forza di costruire il tempio del mondo. Va, aspetta, un’ora, un secolo, aperte le mani, pronto a riceverla ogni mimuto: poichè fra gli innumeri minuti uno solo ne esiste per la venuta di lei. Spegni il tuo inutile ardore, non turbare il nostro gioco.

– Con lagrime, vecchie e nuove, ancora devo errare.

– Guardate lo stolto che s’illude di essere quello che era; fuoco egli è venuto, acqua se ne torna. L’alone verde svanisce, nell’ombra egli tasta da tronco a tronco. Morgana, spezza il cerchio nostro: nell’occhio di lei riluce uno splendore.

– Piegate le gualdrappe, presto a cavallo, avanti con la notte. Qui si sveglia una che molto cercherà, lontano è l’altro.

Traduzione di Corinna van Schendel

Note

  • Arthur van Schendel, Notturno, in: Circoli. Rivista di poesia. Genova, anno III, numero 5, pp. 37-48.
  • La traduzione è preceduta da una brevissima nota, presumibilmente della redazione :
    • Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931Presentare questo scrittore come il più sìgnificativo e il più grande della Olanda di oggi, il pìù veramente degno di fama oltre i confini della sua piccola patria, servirebbe soltanto a situarlo nel panorama europeo. Molto più vale il fatto che, ormai prossimo alla sessantina, egli prosegue con giovanile vigore nella sua opera creativa, che già conta circa trenta volumi. Romanziere e novellatore di classica nobiltà e di umanissimo significato, grande amico della nostra Italia nel suo passato e nel suo presente, appare qui – e il lirico brano è di qualche anno fa – poeta di nordiche fantasie, interprete di germanici sogni aleggianti nei boschi delle Nederlanden e filtrati dal sole discreto di una malinconìca pensosità. Un unico ritmo pervade sicuro questa prosa; non sarà diffìcile per il lettore percepirlo e seguirlo nella versione curata dalla figlia dell’autore, ottima conoscitrice della lingua e della letteratura nostra.
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Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua

Segue un frammento dal secondo capitolo del celebre romanzo di Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua.

 

L’uomo dell’acqua

Verso la fine di gennaio, il rigido vento di levante infuriò per giorni interi senza moderarsi mai e rese dure e bianche le strade; nel porto, davanti alle imbarcazioni, il ghiaccio veniva fatto a pezzi ogni mattina e ogni mattina si ritrovavano di nuovo i lastroni compatti. La gente si chiedeva se l’inverno sarebbe stato così duro come tre anni prima e non tardò molto che il vento, anche questa volta, strinse tra una morsa di gelo le due rive del Merwede. E dopo i ragazzi con le slitte, si vide anche il postino di Woudrichem veleggiare con una barchetta sul ghiaccio lucido.

Arthur van Schendel L'uomo dell'acqua
Al centro un chiosco, dipinto del 1892.

Martino era andato con gli amici a pattinare. Vicino al chiosco dei dolci si era chiesto che cosa ci fosse sotto quel ghiaccio e aveva avuto tanto freddo che gli sembrava di non poter più muovere le gambe. Tornò indietro e notò che andava sempre più adagio, così che nei pressi della città dovette chiedere a un uomo se poteva farsi «tirare» da lui pattinando nella sua scia. Sulla riva, levati i pattini, si fermò a guardare ansioso la superficie ghiacciata.

Il fiume era ancora gelato, quando sua madre si accinse a fare la visita annuale alla nonna, che stava sull’altra riva e prese con sé la sorellina e Martino. Quando egli sentì che sarebbero dovuti andare sul ghiaccio col postino, chiese se poteva restare a casa, ma la mamma rispose che doveva accompagnarla, sia perché in quel momento lui non era in buoni rapporti col padre, sia perché gli avrebbe dato il permesso di portare il cesto.

Nella barca, si mise a osservare meravigliato tutto quel ghiaccio che si stendeva in lontananza e che altro non era se non acqua indurita, eppure era qualcosa di diverso. Talvolta il cavallo scivolava, nonostante i chiodi negli zoccoli. L’uomo con le redini in mano disse che si avvertiva un cambiamento nell’aria e che questo era un bene se si pensava a quei poveri diavoli che non avevano da mangiare, e quando chiese se aveva voglia di guidare lui, Martino disse di no scuotendo la testa. Anche nella carrozza, sulla diga per Brakel, continuò a guardare la piana dura spoglia e lucente.

Nella stanza della nonna era più caldo che a casa e vi aleggiava un odore fumoso di torba e di legno crepitante; lo stoppino sotto al bricco del caffè faceva una bella fiamma chiara. Prima di buio, egli andò ancora fuori a guardare. La piccola casa vicino al fossato stava in disparte dalle altre: aveva anche la porta sul fianco, quasi volesse guardare verso il villaggio. Il tetto, più aguzzo di quelli delle altre case, si elevava al di sopra della diga, spiccando rosso contro una nuvola che si era formata in cielo.

Martino si sedette di nuovo a tavola. E, guardando davanti a sé, stette ad ascoltare la nonna leggere. Mentre mangiavano, notò che la zia lo osservava, allora le ammiccò e così risero entrambi. Ella aveva una voce allegra e raccontava le sue marachelle di quando era bambina, mentre la mamma e la nonna ridevano.

Il mattino seguente, la nonna rimase a letto, ma non era ammalata perché fece chiamare i bambini e dette loro delle caramelle allo sciroppo. Guardando fuori, Martino vide che il postino aveva predetto giusto: la grondaia gocciolava e l’aria era grigia. Lui e la sorellina poterono andare al villaggio con la zia Giannina. Lei parlava molto, con un sorriso sul volto arrossato e con gli occhi pure ridenti: a lui piaceva tanto quando la zia lo prendeva per la spalla per farlo camminare vicino a lei. Onorare i genitori, diceva lei, è cosa che un ragazzo fa spontaneamente e non c’è bisogno per questo di rifarsi alla Scrittura, ma essere sempre obbedienti, questo è chiedere proprio troppo: io non lo potrei nemmeno adesso!

L’importante è di fare il bene, non è vero? Un po’ dare, un po’ prendere e aiutarci l’un l’altro: e così passeremo i nostri giorni.

E si trattenne a discorrere un poco con due uomini che erano venuti a controllare la diga e che raccontarono che, stando ai rapporti, più in su il ghiaccio cominciava già a muoversi e che in alcuni punti le dighe troppo a lungo trascurate si erano indebolite. Allora ella aveva avuto parole di comprensione, così che gli uomini annuirono e sembravano meno impensieriti quando se ne andarono. E lo stesso accadeva nei negozi, dove faceva una chiacchierata: erano cose comuni quelle che diceva in tono leggero, ma la gente avvertiva la sua propensione a comprendere e a scusare. Per due giorni interi, Martino seguì sempre la zia ovunque andasse ed ella disse che il ragazzo assomigliava più a lei che alla madre e che, se loro volevano liberarsi di lui, lei sarebbe stata lieta di prenderselo con sé: la sua casa di Bommel era troppo grande per lei sola.

In quei giorni, dato che non potevano tornare a Gorcum perché il ghiaccio era troppo debole e tuttavia ancora troppo spesso per poterei scavare un canale, Martino ebbe molto da vedere. Nel villaggio, in luoghi diversi, la gente stava a gruppi lungo la riva, le donne con i fazzoletti sulla fronte per ripararsi dall’acquerugiola gelida a guardare in lontananza o in direzione dell’altra riva e a chiedere a ogni venuto se non c’era nulla di nuovo. Davanti alla casa del sindaco c’erano sempre degli uomini che andavano su e giù e aumentavano sempre e uno, che aveva l’aria di essere un capo, dalla scalinata faceva ogni tanto dei cenni a due o tre che allora si caricavano sulle spalle fasci di paglia e paletti, legno e zappe e ritornavano ai loro posti di guardia.

Quando un messo arrivò a briglia sciolta, tutti corsero alla casa del sindaco, poiché là era riunito il consiglio di emergenza; si strinsero tutti insieme ad aspettare e la notizia corse subito di bocca in bocca: a Nimega il fiume trasportava lastroni di ghiaccio, l’acqua era alta venti piedi; vicino a Oosterhout pareva non la si potesse più contenere; a Druten i lastroni si ammassavano gli uni sugli altri. All’imbrunire, il villaggio si animò ancor di più; un numero. sempre maggiore di uomini andava attorno con lanterne e molti portarono i loro fagotti nella casa del pastore, perché là era il solaio posto più in alto di tutti gli altri.

La nonna si era alzata, le donne erano indaffarate a portar di sopra pacchi e biancheria da letto; tutti i vasi e le pentole della parte inferiore della casa e tutti gli arnesi da cucina vennero messi in parueri e casse. Dopo la cena, mandarono fuori Martino a sentire se c’erano nuove.

Da ogni parte ardevano i fuochi di guardia con vampe rosse che si alzavano nell’aria e qua e là, dove le fiamme brillavano, sul ghiaccio scivolavano delle luci. Scese dalla diga e prima ancor di accorgersene si trovò nell’acqua. Capì subito che questa aveva tracimato, vi immerse la mano e se la bagnò fino al polso. Allora corse al primo fuoco che stava un po’ oltre la Casa, dove erano tre uomini che all’interno della diga stavano lavorando con carriole e chiese se poteva aiutare, raccontando che l’acqua stava già un bel po’ al di sopra del ghiaccio.

Uno degli uomini gettò la sua zappa vicino al fuoco e andò a far sondaggi con uno scandaglio; quando tornò disse che da quel lato si potevano già infiggere dei pali, che il terreno era già troppo cedevole secondo lui e che non era la prima volta che in quel punto si verificavano delle infiltrazioni. Martino portò bastoni e graticci e dovette gettare altra paglia nel fuoco perché vi fosse più luce per lavorare. Poi lo mandarono al villaggio per avvertire il capo; venne portato davanti al sindaco che stava seduto a un tavolo con altri uomini e gli chiese come si chiamava. Sei un bravo ragazzo, gli disse il sindaco, e aiuta pure il più possibile il tuo prossimo.

Martino corse avanti con la lanterna dondolante da un bastone: dietro a lui venivano gli uomini con zappe e vanghe, mentre la pioggia cominciava a cadere più fitta. In tutte le abitazioni brillava luce dietro ai vetri e vi si vedeva la gente che si stava preoccupando delle masserizie. Quando giunsero presso i gruppi di guardia, udirono dalle tenebre venire un fragoroso schianto. Martino trottava tra gli uomini alla luce della fiamma, ora attizzando il fuoco col forcone da fieno, ora correndo a balzi verso il basso per vangare o portare fascine. E cercò anche di vedere, pestando sul terreno sia all’interno che all’esterno della diga, se vi erano altri punti deboli. E proprio vicino al fossato, accanto a una casupola dovette passare a guado.

Davanti alla porta illuminata vide un uomo e gli gridò: Acqua da questa parte! L’uomo bestemmiò nella notte, Martino corse indietro a dare l’allarme. In lontananza risuonò un fragore, seguito dallo schianto della riva. Il capo gli ordinò di andare a prendere una raganella dalla casa del sindaco e di girare chiamando a raccolta la gente. L’orologio batteva già le undici, quando egli stava ancora andando attorno per sentieri bui, fermandosi davanti a ogni abitazione e girando la raganella fino a che qualcuno non gli apriva. Dopo la mezzanotte, il sindaco lo vide e lo mandò a casa, dicendogli che avrebbe di nuovo potuto aiutare l’indomani.

La zia Giannina stava ancora accanto alla candela a sferruzzare e mentre gli preparava pane e latte caldo gli disse che sua madre era stata in pensiero, ma che lei era uscita a cercarlo e aveva sentito dire che stava dando il suo aiuto là, sulla diga. Stette a guardarlo mentre mangiava e poi lo portò in soffitta e lo coprì ben bene.

Quando riaprì gli occhi, tutto era ancora grigio, la zia gli era vicino e gli diceva di alzarsi. L’acqua della pioggia fiottava dal tubo della grondaia. Poteva anche divenir peggio di tre anni prima, commentò lei, dicendogli di guardare fuori dai vetri. Proprio davanti a lui, le punte dei blocchi di ghiaccio sporgevano al di sopra della diga.

Fu una domenica di angoscia nel villaggio. Poca gente andò in chiesa, da dove, quando si apriva la porta, alta e implorante risuonava la voce del pastore. Alcuni ragazzi spingevano le mucche fuori dall’abitato lungo stretti sentieri e fino in lontananza si udiva il muggire delle bestie. Passavano anche carri con bambini piccoli e masserizie, giacché nel municipio di Poederoien si era più sicuri che in qualsiasi altro posto al di sotto della diga estiva.

Passavano anche carri pieni di argilla; uomini armati di vanghe e di assi correvano svelti verso il punto in cui si era cominciato a lavorare la sera precedente. Stavano preparando l’incassatura di un argine dalla parte interna, poiché da quella esterna ormai non c’era più nulla da fare: il ghiaccio si ammassava, spinto di continuo in avanti, e talvolta piombava pesantemente in grossi blocchi al di sopra della diga.

Lontano, sulla corrente d’acqua si poteva sentire il crepitare del ghiaccio che si rompeva: di continuo si alzavano nuovi mucchi bloccati da massi più alti e ogni tanto qualcuno di questi crollava e spingeva avanti altri lastroni. Uomini e ragazzi lavoravano senza posa e nessuno si fermava quando passava un messaggero gridando notizie.

Dopo mezzogiorno, nel villaggio ci fu più calma. Il rumore del ghiaccio in movimento era ormai continuo ed entro la chiesa risuonavano i canti delle donne. Insieme agli altri ragazzi, Martino portava i bricchi di caffè alla diga. Verso sera, il sindaco gli ordinò di render noto col suono della raganella che a tutti si consigliava di trascorrere la notte nella scuola e nella casa del pastore. Più tardi, quando tornò a casa, si sparse la voce che a Gameren si era aperta una falla.

Martino fu svegliato da grida e da pianti. Scese le scale a balzi, ma la zia che gli stava dietro lo afferrò per la giacchetta e lo riportò su per le scale proprio prima che l’acqua irrompesse dalla parte superiore della porta. Lottò perché voleva correre verso le grida della madre e della sorellina che erano fuori. L’acqua salì in fretta entro la stanza; anche la nonna lo afferrò stretto; fu portato di sopra. Si arrampicò sull’abbaino e urlò per quello che vide. Una montagna di blocchi di ghiaccio urtava contro la casa, che scricchiolò tutta ed ebbe violenti scossoni che ruppero le travi del tetto e fecero cadere le tegole. La campana suonava a martello; si udiva il sindaco gridare.

Sul tetto c’erano uomini che cominciarono a colpire la finestra con le accette e ne fecero saltare il telaio. Una grossa mano lo afferrò e lo trasse fuori attraverso il buco; venne calato lungo una scala a pioli e cadde sul fondo della barca. Dappertutto vedeva ghiaccio, ammassato, rovesciato, spinto via; laggiù era il campanile e qualche tetto, ma da nessuna parte la terra, né la diga. Si alzò in piedi e cercò con lo sguardo: non c’era altro che acqua e ghiaccio; gente che piangeva e uomini che gridavano e dappertutto bovi che muggivano travolti dall’inondazione.

La zia se lo strinse forte al petto sotto il mantello, gli coprì la testa dicendogli: zitto! zitto! sta buono! La nonna gridava con le mani al cielo: O Signore, Signore, che abbiamo fatto di male?

Brevi note

  • Sullo scrittore Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua è disponibile una pagina informativa qui.
  • Arthur van Schendel L'uomo dell'acqua
    1a edizione, 1933.

    Fonte: il già citato fiorileggio Antologia delle letterature del Belgiuo e dell’Olanda. Milano: Fratelli Fabbri, 1970. pp. 295-300.Il frammento è stato tradotto da Gabriella Antonelli dall’edizione: Arthur van Schendel, De Waterman, L’Aja: Nijgh & Van Ditmar, 1961¹¹, pp. 20-27. Oltre a questa parziale non risulta una traduzione del romanzo intero.

  • La prima edizione è del 1933. Si può leggere il romanzo nella versione originale qui.