Arthur van Schendel: Chiaro di luna, una novella

Segue il testo della novella di Arthur van Schendel: Chiaro di luna. La traduzione dall’olandese è stata realizzata da Giacomo Prampolini, che la pubblicò nel 1927. In calce alcune note e riferimenti.

 

Chiaro di luna

Quella sera, la prima dopo il nostro sbarco, restammo sino a tardi nel giardino di mio fratello – e io non ho più veduto un chiaro di luna così bello e un giardino così pieno d’incanto. Non era ancor buio quando piano piano giungemmo alla panchina, dove, disse Alferico, più gli era caro indugiarsi, sotto due armoniosi lillà: ci sedemmo e restammo un po’ senza parlare perchè la fuggitiva luce del crepuscolo, che sempre desta più segrete commozioni care a tacersi, faceva quieti gli animi nostri. Dinanzi a noi si stendeva un grande campo di viole bianche, sino alla siepe che separa il giardino dalla strada; alle nostre spalle, a destra e a sinistra, crescevano tanti fiori, i più rari, in voluttuoso rigoglio – ma per tutta quella sera i nostri occhi non poterono staccarsi dal campo di viole bianche.

Dopo un po’ ch’eravamo seduti ci mostrammo l’uno all’altro come l’aria si faceva chiara: per il cupo fogliame si effondeva una luce placida e fredda, e alzando gli occhi scorgemmo la luna, nitida e grande, sopra le snelle alberete lontane. Il silenzio cessò. Udimmo laggiù nelle vie suoni di voci e il festoso gridio di bimbi che giocavano, melodioso come una danza leggiadra. Uno di noi disse qual cosa sulla soavità dell’ora e ben presto parlammo tutti, ma con voci discrete per non guastare il nostro calmo diletto.

Uguale apparve il senso dei nostri pensieri, discorremmo del paradiso e delle terre più splendide che si possano immaginare. lo narrai ciò che avevo udito intorno al veglio d’oriente e alla sua corte beata fra i monti; il mio amico raccontò di un eremita che udi cinguettare tra i rami l’uccellino azzurro e lo ascoltò con tale rapimento che, dietro il cinguettio senza fine, vagò lontano lontano dal suo eremo finchè giunse in cielo. Allora mio fratello alzò la testa e parlò a sua volta. Eravamo stati a lungo senza vederlo, e ci aveva sorpresi il trovarlo cosi invecchiato – ora egli prese a narrare come ciò era  accaduto, con voce ove suonava la commozione. Noi in rispettoso silenzio ascoltavamo attenti, fissando con grandi occhi i fiori, i cespugli, il giardino bianco di luce lunare.

«Vi ricordate ancora, nevvero, come un tempo io fossi il più allegro di noi tutti? Forse non son nemmeno tanti anni, e ora ritrovate in me un vecchio. Qui nella città credono che una strana sofferenza mi abbia reso grigio e, melanconico cosi innanzi stagione. Ma io vi assicuro che il motivo non è questo, perchè, quantunque ai miei tempi abbia avuto dei dispiaceri, essi non furono più gravi di quelli che so toccarono ad altri. La causa del mio aspetto da vecchio, che tanto vi ha colpiti, è assai semplice: in realtà non sono più giovane come credete.

Guardate, la luna comincia a brillar più chiara sui fiori che dilatano le loro ombre leggere: là, in quel salice argenteo fra poco vedrete un gioco di splendori su ogni fogliolina – ben lo conosco, io che tante volte sono uscito per mìrarlo. Vedeste mai sera così chiara? Quando vi è come ora il plenilunio, qui fanno festa, nelle vie ballano in cerchio sino a tardi, i bimbi sembrano non sentire più il sonno – e io ascolto volentieri perchè il loro chiasso è musica pel mio fantasticare.

Vi racconterò come vissi dopo che vi lasciai.»

Pareva curvo in avanti, con la testa lievemente piegata da un lato. Nel tono della sua voce, dolce e fluente, si sentiva la bontà del cuore, e questa faceva la chiara sera più soave di pace. Raccontò:

«Navigando giunsi a questa città. Non tardai a incontrar dei giovani coi quali feci amicizia e molto mi divertii – ma avevo deciso di trattenermi solo alcune settimane e poi ripartire verso il sud con nuove mercanzie. Invece la nave è tuttora ancorata nella rada, non ha mai  più navigato. Prima indugiai, poi non potei più partire. Una fanciulla che avevo qui veduta, si mi colmò della sua amabile grazia che ben presto capii di essere innamorato come soltanto a pochi succede. Suo padre era persona ragguardevole, e io non avevo la più piccola speranza, nemmeno quella di riuscire a parlarle. Mi conoscete, non sono un sognatore; così, mi rassegnai, ben sapendo che un umile deve essere modesto nei suoi desideri. Però volevo almeno vederla, per quanto mi era possibile, e a notte tarda gironzavo sempre intorno alla sua dimora, dubitando che il lumicino dietro una finestra fosse il suo – seppi di poi che la sua camera era proprio quella di cui vedete la finestra illuminata, là all’angolo di sinistra: ora sempre vi arde una candela, non appena annotta.

Capirete perchè io mi senta al colmo della felicità, quando la luna splende come stasera. Era appunto una sera come questa, e io nella strada invano cercavo tanto d’ombra che bastasse a nascondermi, perchè temevo di essere veduto. La strada era deserta, vi passava soltanto un vecchio. Ma più d’una volta lo vidi tornare indietro, avvicinandosì a tratti alla siepe che mi proteggeva, si che pensai di essere spiato. Lontano, nelle vie più frequentate vi era questo medesimo chiasso di fanciulli, piccini che piangevano e più grandi che giocavano.

… Ma guardate un po’ quel salice: non vi par di mirare una tacita fontana nella tenerezza di questa luce ?»

Stupimmo alla visione: le foglie dei penduli rami erano piene di discreti scintillii e nel sereno fulgore l’albero s’ergeva immobile, come dovesse giungere una mirabile apparizione. Restammo muti a contemplare, fìnchè di nuovo risuonò la voce di mio fratello:

«Perdonate se non racconto con ordine, la fantasia mi riporta ai desideri di anni lontani, voi ben li conoscete: desideri così bizzarri che mai non osiamo nominarli. Ma proseguo.

Stavo dietro la siepe e guardavo, là dove vedete un apertura tra i rami: il giardino era proprio come ora, vi fiorivano le medesime viole – tanto bianche che rimasi lungo a fissarle. Immaginatevi la mia commozione quando tutto d’un tratto scorsi lei. Era seduta su questa panchina, vestita di rosso e teneva essa pure il viso rivolto verso i fiori. Quante volte ho riveduto nel ricordo quella scena eppure sento ancora batterne il cuore…»

Egli non s’arrestò ma in quel momento io e il mio amìco alzammo la testa: udivamo in lontananza un giocondo motivo che qualche innamorato suonava sul flauto e laggiù dietro gli alberi l’aria brusiva di teneri sussurri.

«Non potevo staccare gli occhi da lei. Ricordo ancora benissimo ciò che pensavo: se quel vecchio che udivo furtivo alle mie spalle, fosse proprio una creatura viva o non piuttosto un fantasma – strano pensiero nevvero? Ma ben più strana fu di poi la mia commozione. La luna brillava anche più chiara e radiosa di stasera, e in quel fulgore il viso di lei aveva un incanto che mai non gli avevo scoperto per l’innanzi. Essa mosse il capo, e vidi i suoi occhi, calmi e neri, rivolti verso di me, Ristemmo entrambi, immobili, a fissarci. lo ero preso in una fredda gioia – come chi sente aggirarsi intorno a lui quella suprema felicità che mai non s’avvera. Essa si alzò dalla panchina, sorrise e sollevando lo strascico della veste venne verso di me, attraverso il campo di fiori. Non sapevo che cosa accadesse. Mi tese la mano fra i rami e disse: Venite qui in giardino, ho già veduto tante volte il vostro viso. Scavalcai la siepe e strinsi a me la fanciulla. Poi insieme parlammo dei pensieri più nostri, dicendo poche parole, chè, dal chiasso lontano che diminuiva, capimmo che s’era fatto tardi. La lasciai e tornai verso casa, pieno di quella timida meraviglia che voi dovete conoscere se avete mai udito una donna dirvi che vi vuoi bene. Fu la notte più cara della mia vita.»

La canzone del flautista nella boscaglia si faceva ariosa e agile, e a noi pareva non s’intonasse con quella storia d’amore, perchè nella voce di mio fratello udivamo l’annuncio di più gravi cose. Egli appariva assai turbato, s’era alzato e a capo scoperto guardava da ogni parte. Poi si rimise a sedere fra noi e continuò con un sorriso:

«Il mattino. dopo, quando mi svegliai, vi era il padre ad aspettarmi; parlò affabile e generoso e si disse lieto della felicità della figlia. Volle che io abitassi in casa sua, perchè egli doveva partire per un lungo viaggio. Oh quel tempo in cui potevo stare ogni giorno con lei e si facevano i preparativi per la festa delle nostre nozze! E poi la mia meraviglia, nei primi giorni della nostra unione, al vedere che Lois mi amava più che non l’amassi io. Dove, dove è rimasta la mia gioia? Dove sono le uniche persone che ho amate con tutto il cuore? Ora, soltanto io son qui, solitario come un tempo.»

Per la guancia gli scivolò una lacrima, piccolo splendore d’opale, ma io nella mia impazienza non potei trattenermi dal domandare:

«Vi siete poi sposati?»

E anche il mio amico, che aveva sin’allora fissato l’oscurità vaporosa donde giungeva la musica, lo guardò interrogando.

«Vi racconterò tutto con precisione, non sono ancora uscito di senno. Vivemmo insieme felici, in questa stessa casa. Feci qualche viaggio per commerciare in altre terre, ma non restai mai a lungo assente, perchè troppo soffrivamo entrambi della separazione. Ogni qualvolta tornavo cominciava per noi una nuova gioia, e sommamente cara ci era la solitudine. Nella mia stanza o in questo rigoglioso giardino passavamo ore di serena contentezza, sorridendoci se i nostri guardi s’incontravano. Per istrada la gente ci salutava con lieto viso, per il piacere di vederci cosi felici; i nostri amici dicevano spesso che c’invidiavano. E, ricordo, desiderai talvolta che anche voi foste qui, a vedere la donna mia e la soavità della mia casa.

Ci nacque un bimbo che somigliava a lei.»

Sospirò profondamente, e tacque; comprendemmo la pena del rievocare. Innanzi a me non vedevo che uno splendore di viole, ma all’intorno nei profumi e nelle ombre sembravano vagare invisibili esseri, come fate che giungessero furtive per ascoltare il suono di quella voce. Invero, più d’una volta in seguito dubitai che in quel momento fossimo realmente soli. Quali occhi possono vedere i tutto?

«Se il mio disinganno avesse riguardato soltanto lei, Lois che amavo con tanta umiltà, forse avrei pianto assai, come altri cui sopraggiunge una grande sventura. Dal giorno in cui egli nacque vissi in un indicibile fervore di ansie, che colmava tutto il mio essere, la parte più pia della mia anima e la mia mente. Lois n’era lieta perchè sapeva ciò che non le dicevo: il bimbo era per me quella gioia che gli uomini tengono segreta nel cuore. Ancor ora, che sono passati tanti anni, ancor ora, quando sono solo, spesso vedo quel visino e quegli occhi, e allora non posso trattenere il pianto. Ma di lui nulla vi dirò. Se Iddio Signore vi ha dato un’anima, subito capirete ciò che voglio dire, perchè allora saprete come ognuno, presso alla fine di tutte le cose, abbia ancora un desiderio, uno solo.

Il mio bimbo – ho dimenticato il suo nome, benchè lo conoscessi molto bene – aveva otto anni quando Lois s’ammalò e morì. Vennero molti amici a confortarmi, e, quando camminavo per istrada, i cittadini pei quali eravamo stati un’immagine di felicità mi guardavano pietosamente. Ma non ricordo di avere versato una sola lagrima, mi tenevo sempre accanto il mio bimbo, e pensavo a Lois, sapevo che l’avrei riveduta. Mi isolai sempre più dalla gente e trascurai gli affari. lo e il mio bimbo giocavamo insieme, passeggiavamo insieme, parlavamo di colei ch’era morta. Egli pel primo, un mattino che leggevamo nell’ombra d’un boschetto di rose, espresse il desiderio che la mamma tornasse a vivere. Vedete che so il posto preciso dove fu destato in me quel pensiero. Non gli risposi; tuttavia a poco a poco m’accorsi che’ero io pure turbato da quel desiderio benchè comprendessi l’impossibilità di tanto prodigio. Pensai allora che il dolore che fa piangere altri, di me aveva fatto un folle sognatore.

Udite laggiù i fanciulli che giocano ancora? Anche quel flautista malato d’amore è certo immemore di tutto in questa chiarità lunare, e le sue melodie, ora così sospirose, sembrano dargli sufficiente gioia nella sua solitudine.

Poco fa ho parlato troppo serio, le mie parole devono essere più lievi, nevvero? Grato è sedere qui, sotto i lillà, e guardare le strane figure delle piante e delle ombre. Ma voglio almeno finire.

Una sera – avevo pregato sulla tomba di Lois ed egli dormiva nella stanza dove arde la candela – uscii meditabondo in istrada, e, seguendo la siepe, continuavo a pensare se non mi sarebbe stato possibile rivedere Lois almeno una volta. D’un tratto mi fermai: con terrore avevo scorto il vecchio da me incontrato al principio della mia felicità. Egli sgattaiolò fra gli alberi dall’altra parte della strada; teneva la testa curva e vidi che i suoi occhi mi spiavano obliquamente. Provai una grande angoscia e stetti immobile, a lungo, finchè il vecchio non scomparve nel buio. Allora, ancora stupito della sua apparizione, mi voltai e per quell’apertura nel fogliame scorsi Lois seduta su questa panchina, vestita di rosso come la prima sera. Ma capii che non era la stessa: il suo viso era cambiato, non era più così bello – così pieno di anima – sopratutto i suoi occhi erano quelli di un’altra.

Sentii sulla spalla una mano pesante e mi guardai intorno: dietro di me era il vecchio con un orribile volto. Sorrise, e mi disse: «Giovanotto mio, che state qui a sognare, copritevi la testa e siate guardingo col chiaro di luna.»

Tornai a voltarmi: Lois era ancora là nella stessa posizione. Il vecchio doveva essere un mago, se non peggio. Mi disse: «Essa è là dal principio della sera e, se aspettate, fra poco la vedrete entrare. Voi siete sempre il giovanotto di un momento fa, la vostra nave è ancora nella rada. Siate almeno riconoscente per un sogno felice.»

Se ne andò e mi lasciò solo. Non sapevo trovare un senso in tutto ciò. Lois, benchè non fosse più la stessa, era sempre seduta su questa panchina. D’un tratto pensai al mio bambino – gridai, compresi che non esisteva più, il suono della mia voce mi fece paura.»

lo e il mio amico balzammo in piedi: ci era parso di udire davvero il grido nel viale. Ma mio fratello prosegui con voce quieta:

«Dopo d’allora non potei partire, giacqui lunghi giorni a letto. Non v’eravate dunque aspettati che il mio racconto fosse soltanto quello d’un sogno? non credete però che abbia voluto ingannarvi per gioco – se mai vi avvenisse di sognare, auguro che il vostro sogno non vi appaia la vostra stessa vita. Poichè io, amici miei, da quando la luna ha preso a giocare con me, non ho avuto altro desiderio che quello di vivere tutto solo qui, nel luogo dove ho amato, con intorno i fantasmi più cari – nè altra tristezza che quella di sapere che in nessuna parte vi è una tomba di un figlio mio.

Ebbi fortuna e diventai ricco. La fanciulla che qui abitava partì col padre, e io comprai la casa e il giardino. Ora il mio più vivo diletto è di indugiarrni fra questi cespugli e queste viole, nel luogo dove provai il mio unico amore e dove un tempo giocai con un caro bambino.

Parlavamo di terre nelle quali soltanto esiste la felicità, per questo vi ho fatto il mio racconto.»

Tacemmo tutti e tre, guardando innanzi a noi il candido campo: laggiù, udivamo pur sempre il tenero suono del flauto e grida festose di giovani danzatori. Il cielo era alto e sereno.

Brevi note e riferimenti bibliografici

  • Una pagina su Arthur van Schendel si trova qui.
  • Il titolo originale del racconto è ‘Maneschijn’ e fu pubblicato per la prima volta nel 1904 sulla rivista letteraria De Nieuwe Gids. Il testo in nederlandse fa parte del primo volume dell’opera completa: Arthur van Schendel, Verzameld Werk. Deel I. Meulenhoff, Amsterdam, 1976, pp. 281-287. Si può leggere qui.

 

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