Categoria: Autori olandesi tradotti

A partire dal Novecento si hanno le prime traduzioni di autori di lingua nederlandse.

Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931

La novella di Arthur van Schendel, Notturno fu pubblicato in nederlandese con il titolo “Nachtmuziek” nel 1931. Due anni dopo fu tradotto da sua figlia Corinna e pubblicato in una rivista genovese di poesia.

 

Notturno

Or legate i cavalli nel buio del bosco dove stella non li sgomenti e la bianchezza loro non abbagli occhio mortale o farfalla o gufo. Testa a testa, il circolo chiudete. Le scintille spegnete; poi su code e criniere, prudenti e pronte, senza fruscio, le gualdrappe spiegate.

– Vedi? Intrecciato s’è il cerchio, Morgana.

– Su, balzando per rami e fogliame non destate uccelli, dalle treccie torcete rugiada, dalle dita stillate la luce; intorno i veli, diritti gli occhi. Prima che i pianeti abbiano percorso la loro curva, una voce umana chiamerà al di là della notte; un secolo chiamerà, lungo quanto il mignolo mio e tacerà la notte, senza altro suono che di crescere e perire. Ma se avanti quella voce si spigne e penetra in noi, bene addentro là dove i germi stan chiusi, se una di noi trasale per fame o per sete, e domanda di nascere, ascoltate allora la voce mia; suono v’è in noi che l’umano sorpassa. Zitte, senza tema, tutte all’erta, questa con quella come ognuno sa, due a due, tre a tre, contate il numero come avete imparato. Non tremate, mie piccole, mie non ancor nate, ecco lontano il chiarore.

Lucentezza attutita, un uomo viene guizzando come pesce dal fondo; verde è il suo alone, adesso, verde diventa la notte. Ma a noi il bianco, il bianco ai nostri cavalli. Ecco: osservate, un gigante in armatura scagliosa, esita, si smarrisce, ora si ritrae, fugge, atterrito dal tronco luccicante. Se pietà o  misericordia fosse in noi, doni celesti a tutto ciò che respira, rintronerebbe il bosco di pianti e di lamenti per il tormento che qui si sta soffrendo. Non spingete, non chiedete: curiosità ci porta sventura. Ecco: si ferma, in agguato ascolta, stupito del proprio splendore. Ora s’avanza veloce e furtivo – rifulgono i tronchi – verde animale strisciante, ingordo di preda. Nei vostri veli, compagne, attendete la voce, grande più che di leone assetato o di frenetico cane. Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, senza principio nè fine.

– Tranquille, amiche: quiete restate, come i cavalli. Là, sotto l’abete, dallo smeraldo, giunge ora la voce.

– Io chiamo, cerco, povero sotitario.

– Una piccola voce, temuta più d’una grande. Rispondiamo, ognuna a nostra volta, dieci a dieci, e altro non occorre che l’arpa, il piffero e il violino.

– Chi chiama? Olà, chi cerca nella notte? Olà, rispondi! Buona gente è qui, per lo sperduto che è buono. Apprèssati dove il buio scintilla alla vista e suona il tintinnìo.

– Infelice invoco, io che cerco.

– Viandante, apprèssati, va dove l’oscurità si fa più oscura, dove verde diventa e lucente, e verde ancora e buia, giù sotto le foglie. Non chiamare forte, non chiamare un nome; ma chiedi, chiedi ciò che cerchi, tu re dei viventi. Balsamo e cinguettìi abbiamo per risposta.

– Lei voglio, lei cerco per tutto il mondo, lei chiamo anche al di là dei limiti del giorno e della notte.

– Adagio intona, o piffero, un canto antico per rammentar qualcosa; l’arpa accanto: in fondo il violino.

– Piccolo è il paese dove in gioventù abitai: una collina e intorno l’acqua con mormorìo d’alberi e d’onde. Una donna mi aveva portato e dimenticato là, nessuno vedevo con cui giocare, fuorchè l’acqua, la sabbia, foglie e coccole rosse e gialle. Ma nelle grotte, nelle verdi grotte giù presso il mare, imparai a ridere e zufolare. Buccine e conchiglie trovai che musica chiamavan dall’orizzonte, alta o bassa; e una conchiglia v’era, dentellata e bianca, che una volta s’aprì al mattino e ne usci colei che io non scordai più, colei che soltanto era fruscio: e via volò, nube senza nome, per sempre innominata. Un tintinnìo fugace, un riso al crepuscolo, un rintocco nel buio, uno stormire di foglie: chiedete il suo nome al pipistrello o all’usignuolo.

– Suonatore, dove sei? Non spezzarmi il cuore, dimmi che hai visto, dimmi dov’è.

– Non appressarti, forestiero, fermati! Il tuo cuore sa d’amaro, il tuo colore è verde, vecchio ti fa il cercare.

– Dimmi dov’è. Ho sentito di una figlia di re, senza nome, che dorme e aspetta che io la desti. Dimmi dove posso trovarla.

– Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, ma il suo petto già trema.

– Sussurra tra le corde una frescura, arpa, una voce della nostra foresta.

– Querce e faggi, abeti e pini, felci e muschio, poi, sull’orlo, betulle trasparenti e pioppi. Chi vide tutte le foglie, chi conosce tutti i frutti, tutti i semi? La savia cingallegra da Merlino istruita, l’operoso picchio che indaga nelle fessure, invano sono in cerca di segreti. Ciò che respira, vive e brama, talvolta è molto sciocco, vuol scoprir tutto e tutto sapere, non dubita dell’esistenza di cosa che teme l’esser conosciuta dai viventi. Alberi e felci l’un per l’altro hanno segreti, in tronchi e fusti oscuramente riposti, che con loro in polvere si sfanno; nessuno li conoscerà, nessuno intenderà il loro stormire nella brezza, il loro tumulto nella bufera.

Mortale, non sai dunque che chi dorme, una figura vede più radiosa nel sonno di quando appare nello splendore del sole? Udisti di una che dorme e attende il risveglio da voce umana? Non è principessa, non figlia di sovrano: Stellina è più di lei, è sorella, di stelle e segnata d’un nome. Qui la condusse a lieve sonno, tra il fruscio dei rami custode, il genio silvano. Soltanto l’occhio dell’Origine vede ciò che essa vede. Chi il niveo silenzio osa disturbare, chi toccare un santo segreto? Vòltati, forestiero, vòlta, innanzi ad un abisso sei, l’ardore del tuo sguardo troppo avanti si lancia: e ci scotta. Bianche siamo e delicate, noi che vegliamo, ma unghiate siamo, qualora la brama osi violare il sonno sacro. Ristoro ti dà il respiro degli alberi, bevi e rinfrèscati, ma fuggi, fuggi l’illusione.

– Arso dal fuoco devo avanzare; il desìo arretrare non sa: nell’illusione lacciàtemi svanire, in essa abbandonàtemi sino alla fine, finchè sia consunto il volere, il mio volere verso di lei.

– Campanella mattutina, presto, accosta i veli.

– Ella dorme, Morgana, ma sembra che sussurri: con bàttito di cuore.

– Suona, violino, la consolante necessità, redìmilo; e càntagli il dono del pianto.

– Narrare devo degli sperduti, qua e là per boschi e paludi, cercatori che fissarono la fiamma seguìta finchè il crepuscolo giunse, e la sera, con sospiro e singulto di vento? Solo un uccello, alto in cielo, talvolta le ossa di tese mani distingue; in volo sorpassa i luoghi dove soltanto rimase ciò che scolora alla pioggia ed al sole, da volontà e desiderio abbandonato. Sicuro è il guadagno per chi alla fiera si reca, e niente lo stimano i cercatori; ma riflettano un poco se giova penare in cerca di quello che mai non si trova, se a nulla, a nulla, aspirare convenga, Triste è vedere i boccioli morsi dal verme che distrugge, triste il marcire in germe dei mille e mille semi del faggio, triste vedere inmumeri figli di uomini che bramano senza sopportare, che chiamano, afferrano e insistono, senza udire la voce dal fondo, la voce dell’Origine.

Facile sembra loro dei boccioli il formarci e dei semi; ma dell’acre e dell’acerbo, del moto che spinge e produce, nulla sanno.

Guarda nel cuore tuo, tu che cerchi gli enigmi; a lungo errerai tra selve e rovi finchè giungerai ad un lago, nero, insondabile. Là resta ed attendi. Ascolta mormorare quanto è cara la pena, quanto soave il dolore, ristoratore il pianto. Chi questo non udì: il purificato suono del  proprio affanno incessante, chi mai non pianse senza conoscerne causa, e sospirò l’ultima delle lagrime, colui come cieco a tastoni s’aggira nell’orto fiorito dove misurata gli è l’ora di sole, Alla tua gente torna; gelida si fa la notte, venire io odo il mattino. Se troppo hai violento il desiderio, troppo sciocco il pensiero, abbi fiducia nell’umor del tuo occhio. Lacrime ne cadranno senza fine se un giorno il tuo desiderio s’appaghi e il cuore assopito si desti all’incendio struggente del sangue. Ascendi sui venti dell’amore, sublime di pietà diventa l’amante.

– Lagrime ho più di quante io sappia, lagrime sono il mio destino; sempre cercando non ho mai trovato, sempre in modi diversi debbo andare. Se un mistero è quello che io voglio, un’anima sopra la mia, se esaudirmi ella non può, di nuovo camminero, vagando, cercando.

– Campanella mattutino, quale nuova?

– Ella dorme, Morgana, con una lagrima nell’occhio.

– Fuggire dobbiamo, ella nascerà per cercare e non trovare. Il grido dell’uomo è come un sasso caduto nel fondo del lago buio, e chi potrà sapere dove giunga l’increspatura?

– Mortale, ascolta: sono io che parlo, Morgana, sorella di Merlino e custode di germi, di steli, e di semi. Un mistero è in ogni vivente che per molte estati ed inverni crescere deve, prima di svelare un’unica particella, un piccolo colore, un odore, un suono; e più d’uno che alla terra ritorna, del mistero il nucleo neppure sospetta. Poco fuori si manifesterà, ma megliò è aspettare – con palpebre basse, di notte presso una candela – ciò che senza il tuo richiamo da te stesso nascerà. Soltanto quello che vuol nascere, per quanto piccolo all’occhio avrà forza di costruire il tempio del mondo. Va, aspetta, un’ora, un secolo, aperte le mani, pronto a riceverla ogni mimuto: poichè fra gli innumeri minuti uno solo ne esiste per la venuta di lei. Spegni il tuo inutile ardore, non turbare il nostro gioco.

– Con lagrime, vecchie e nuove, ancora devo errare.

– Guardate lo stolto che s’illude di essere quello che era; fuoco egli è venuto, acqua se ne torna. L’alone verde svanisce, nell’ombra egli tasta da tronco a tronco. Morgana, spezza il cerchio nostro: nell’occhio di lei riluce uno splendore.

– Piegate le gualdrappe, presto a cavallo, avanti con la notte. Qui si sveglia una che molto cercherà, lontano è l’altro.

Traduzione di Corinna van Schendel

Note

  • Arthur van Schendel, Notturno, in: Circoli. Rivista di poesia. Genova, anno III, numero 5, pp. 37-48.
  • La traduzione è preceduta da una brevissima nota, presumibilmente della redazione :
    • Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931Presentare questo scrittore come il più sìgnificativo e il più grande della Olanda di oggi, il pìù veramente degno di fama oltre i confini della sua piccola patria, servirebbe soltanto a situarlo nel panorama europeo. Molto più vale il fatto che, ormai prossimo alla sessantina, egli prosegue con giovanile vigore nella sua opera creativa, che già conta circa trenta volumi. Romanziere e novellatore di classica nobiltà e di umanissimo significato, grande amico della nostra Italia nel suo passato e nel suo presente, appare qui – e il lirico brano è di qualche anno fa – poeta di nordiche fantasie, interprete di germanici sogni aleggianti nei boschi delle Nederlanden e filtrati dal sole discreto di una malinconìca pensosità. Un unico ritmo pervade sicuro questa prosa; non sarà diffìcile per il lettore percepirlo e seguirlo nella versione curata dalla figlia dell’autore, ottima conoscitrice della lingua e della letteratura nostra.
  • Vedere qui una pagina sull’Autore.

 

Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua

Segue un frammento dal secondo capitolo del celebre romanzo di Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua.

 

L’uomo dell’acqua

Verso la fine di gennaio, il rigido vento di levante infuriò per giorni interi senza moderarsi mai e rese dure e bianche le strade; nel porto, davanti alle imbarcazioni, il ghiaccio veniva fatto a pezzi ogni mattina e ogni mattina si ritrovavano di nuovo i lastroni compatti. La gente si chiedeva se l’inverno sarebbe stato così duro come tre anni prima e non tardò molto che il vento, anche questa volta, strinse tra una morsa di gelo le due rive del Merwede. E dopo i ragazzi con le slitte, si vide anche il postino di Woudrichem veleggiare con una barchetta sul ghiaccio lucido.

Arthur van Schendel L'uomo dell'acqua

Al centro un chiosco, dipinto del 1892.

Martino era andato con gli amici a pattinare. Vicino al chiosco dei dolci si era chiesto che cosa ci fosse sotto quel ghiaccio e aveva avuto tanto freddo che gli sembrava di non poter più muovere le gambe. Tornò indietro e notò che andava sempre più adagio, così che nei pressi della città dovette chiedere a un uomo se poteva farsi «tirare» da lui pattinando nella sua scia. Sulla riva, levati i pattini, si fermò a guardare ansioso la superficie ghiacciata.

Il fiume era ancora gelato, quando sua madre si accinse a fare la visita annuale alla nonna, che stava sull’altra riva e prese con sé la sorellina e Martino. Quando egli sentì che sarebbero dovuti andare sul ghiaccio col postino, chiese se poteva restare a casa, ma la mamma rispose che doveva accompagnarla, sia perché in quel momento lui non era in buoni rapporti col padre, sia perché gli avrebbe dato il permesso di portare il cesto.

Nella barca, si mise a osservare meravigliato tutto quel ghiaccio che si stendeva in lontananza e che altro non era se non acqua indurita, eppure era qualcosa di diverso. Talvolta il cavallo scivolava, nonostante i chiodi negli zoccoli. L’uomo con le redini in mano disse che si avvertiva un cambiamento nell’aria e che questo era un bene se si pensava a quei poveri diavoli che non avevano da mangiare, e quando chiese se aveva voglia di guidare lui, Martino disse di no scuotendo la testa. Anche nella carrozza, sulla diga per Brakel, continuò a guardare la piana dura spoglia e lucente.

Nella stanza della nonna era più caldo che a casa e vi aleggiava un odore fumoso di torba e di legno crepitante; lo stoppino sotto al bricco del caffè faceva una bella fiamma chiara. Prima di buio, egli andò ancora fuori a guardare. La piccola casa vicino al fossato stava in disparte dalle altre: aveva anche la porta sul fianco, quasi volesse guardare verso il villaggio. Il tetto, più aguzzo di quelli delle altre case, si elevava al di sopra della diga, spiccando rosso contro una nuvola che si era formata in cielo.

Martino si sedette di nuovo a tavola. E, guardando davanti a sé, stette ad ascoltare la nonna leggere. Mentre mangiavano, notò che la zia lo osservava, allora le ammiccò e così risero entrambi. Ella aveva una voce allegra e raccontava le sue marachelle di quando era bambina, mentre la mamma e la nonna ridevano.

Il mattino seguente, la nonna rimase a letto, ma non era ammalata perché fece chiamare i bambini e dette loro delle caramelle allo sciroppo. Guardando fuori, Martino vide che il postino aveva predetto giusto: la grondaia gocciolava e l’aria era grigia. Lui e la sorellina poterono andare al villaggio con la zia Giannina. Lei parlava molto, con un sorriso sul volto arrossato e con gli occhi pure ridenti: a lui piaceva tanto quando la zia lo prendeva per la spalla per farlo camminare vicino a lei. Onorare i genitori, diceva lei, è cosa che un ragazzo fa spontaneamente e non c’è bisogno per questo di rifarsi alla Scrittura, ma essere sempre obbedienti, questo è chiedere proprio troppo: io non lo potrei nemmeno adesso!

L’importante è di fare il bene, non è vero? Un po’ dare, un po’ prendere e aiutarci l’un l’altro: e così passeremo i nostri giorni.

E si trattenne a discorrere un poco con due uomini che erano venuti a controllare la diga e che raccontarono che, stando ai rapporti, più in su il ghiaccio cominciava già a muoversi e che in alcuni punti le dighe troppo a lungo trascurate si erano indebolite. Allora ella aveva avuto parole di comprensione, così che gli uomini annuirono e sembravano meno impensieriti quando se ne andarono. E lo stesso accadeva nei negozi, dove faceva una chiacchierata: erano cose comuni quelle che diceva in tono leggero, ma la gente avvertiva la sua propensione a comprendere e a scusare. Per due giorni interi, Martino seguì sempre la zia ovunque andasse ed ella disse che il ragazzo assomigliava più a lei che alla madre e che, se loro volevano liberarsi di lui, lei sarebbe stata lieta di prenderselo con sé: la sua casa di Bommel era troppo grande per lei sola.

In quei giorni, dato che non potevano tornare a Gorcum perché il ghiaccio era troppo debole e tuttavia ancora troppo spesso per poterei scavare un canale, Martino ebbe molto da vedere. Nel villaggio, in luoghi diversi, la gente stava a gruppi lungo la riva, le donne con i fazzoletti sulla fronte per ripararsi dall’acquerugiola gelida a guardare in lontananza o in direzione dell’altra riva e a chiedere a ogni venuto se non c’era nulla di nuovo. Davanti alla casa del sindaco c’erano sempre degli uomini che andavano su e giù e aumentavano sempre e uno, che aveva l’aria di essere un capo, dalla scalinata faceva ogni tanto dei cenni a due o tre che allora si caricavano sulle spalle fasci di paglia e paletti, legno e zappe e ritornavano ai loro posti di guardia.

Quando un messo arrivò a briglia sciolta, tutti corsero alla casa del sindaco, poiché là era riunito il consiglio di emergenza; si strinsero tutti insieme ad aspettare e la notizia corse subito di bocca in bocca: a Nimega il fiume trasportava lastroni di ghiaccio, l’acqua era alta venti piedi; vicino a Oosterhout pareva non la si potesse più contenere; a Druten i lastroni si ammassavano gli uni sugli altri. All’imbrunire, il villaggio si animò ancor di più; un numero. sempre maggiore di uomini andava attorno con lanterne e molti portarono i loro fagotti nella casa del pastore, perché là era il solaio posto più in alto di tutti gli altri.

La nonna si era alzata, le donne erano indaffarate a portar di sopra pacchi e biancheria da letto; tutti i vasi e le pentole della parte inferiore della casa e tutti gli arnesi da cucina vennero messi in parueri e casse. Dopo la cena, mandarono fuori Martino a sentire se c’erano nuove.

Da ogni parte ardevano i fuochi di guardia con vampe rosse che si alzavano nell’aria e qua e là, dove le fiamme brillavano, sul ghiaccio scivolavano delle luci. Scese dalla diga e prima ancor di accorgersene si trovò nell’acqua. Capì subito che questa aveva tracimato, vi immerse la mano e se la bagnò fino al polso. Allora corse al primo fuoco che stava un po’ oltre la Casa, dove erano tre uomini che all’interno della diga stavano lavorando con carriole e chiese se poteva aiutare, raccontando che l’acqua stava già un bel po’ al di sopra del ghiaccio.

Uno degli uomini gettò la sua zappa vicino al fuoco e andò a far sondaggi con uno scandaglio; quando tornò disse che da quel lato si potevano già infiggere dei pali, che il terreno era già troppo cedevole secondo lui e che non era la prima volta che in quel punto si verificavano delle infiltrazioni. Martino portò bastoni e graticci e dovette gettare altra paglia nel fuoco perché vi fosse più luce per lavorare. Poi lo mandarono al villaggio per avvertire il capo; venne portato davanti al sindaco che stava seduto a un tavolo con altri uomini e gli chiese come si chiamava. Sei un bravo ragazzo, gli disse il sindaco, e aiuta pure il più possibile il tuo prossimo.

Martino corse avanti con la lanterna dondolante da un bastone: dietro a lui venivano gli uomini con zappe e vanghe, mentre la pioggia cominciava a cadere più fitta. In tutte le abitazioni brillava luce dietro ai vetri e vi si vedeva la gente che si stava preoccupando delle masserizie. Quando giunsero presso i gruppi di guardia, udirono dalle tenebre venire un fragoroso schianto. Martino trottava tra gli uomini alla luce della fiamma, ora attizzando il fuoco col forcone da fieno, ora correndo a balzi verso il basso per vangare o portare fascine. E cercò anche di vedere, pestando sul terreno sia all’interno che all’esterno della diga, se vi erano altri punti deboli. E proprio vicino al fossato, accanto a una casupola dovette passare a guado.

Davanti alla porta illuminata vide un uomo e gli gridò: Acqua da questa parte! L’uomo bestemmiò nella notte, Martino corse indietro a dare l’allarme. In lontananza risuonò un fragore, seguito dallo schianto della riva. Il capo gli ordinò di andare a prendere una raganella dalla casa del sindaco e di girare chiamando a raccolta la gente. L’orologio batteva già le undici, quando egli stava ancora andando attorno per sentieri bui, fermandosi davanti a ogni abitazione e girando la raganella fino a che qualcuno non gli apriva. Dopo la mezzanotte, il sindaco lo vide e lo mandò a casa, dicendogli che avrebbe di nuovo potuto aiutare l’indomani.

La zia Giannina stava ancora accanto alla candela a sferruzzare e mentre gli preparava pane e latte caldo gli disse che sua madre era stata in pensiero, ma che lei era uscita a cercarlo e aveva sentito dire che stava dando il suo aiuto là, sulla diga. Stette a guardarlo mentre mangiava e poi lo portò in soffitta e lo coprì ben bene.

Quando riaprì gli occhi, tutto era ancora grigio, la zia gli era vicino e gli diceva di alzarsi. L’acqua della pioggia fiottava dal tubo della grondaia. Poteva anche divenir peggio di tre anni prima, commentò lei, dicendogli di guardare fuori dai vetri. Proprio davanti a lui, le punte dei blocchi di ghiaccio sporgevano al di sopra della diga.

Fu una domenica di angoscia nel villaggio. Poca gente andò in chiesa, da dove, quando si apriva la porta, alta e implorante risuonava la voce del pastore. Alcuni ragazzi spingevano le mucche fuori dall’abitato lungo stretti sentieri e fino in lontananza si udiva il muggire delle bestie. Passavano anche carri con bambini piccoli e masserizie, giacché nel municipio di Poederoien si era più sicuri che in qualsiasi altro posto al di sotto della diga estiva.

Passavano anche carri pieni di argilla; uomini armati di vanghe e di assi correvano svelti verso il punto in cui si era cominciato a lavorare la sera precedente. Stavano preparando l’incassatura di un argine dalla parte interna, poiché da quella esterna ormai non c’era più nulla da fare: il ghiaccio si ammassava, spinto di continuo in avanti, e talvolta piombava pesantemente in grossi blocchi al di sopra della diga.

Lontano, sulla corrente d’acqua si poteva sentire il crepitare del ghiaccio che si rompeva: di continuo si alzavano nuovi mucchi bloccati da massi più alti e ogni tanto qualcuno di questi crollava e spingeva avanti altri lastroni. Uomini e ragazzi lavoravano senza posa e nessuno si fermava quando passava un messaggero gridando notizie.

Dopo mezzogiorno, nel villaggio ci fu più calma. Il rumore del ghiaccio in movimento era ormai continuo ed entro la chiesa risuonavano i canti delle donne. Insieme agli altri ragazzi, Martino portava i bricchi di caffè alla diga. Verso sera, il sindaco gli ordinò di render noto col suono della raganella che a tutti si consigliava di trascorrere la notte nella scuola e nella casa del pastore. Più tardi, quando tornò a casa, si sparse la voce che a Gameren si era aperta una falla.

Martino fu svegliato da grida e da pianti. Scese le scale a balzi, ma la zia che gli stava dietro lo afferrò per la giacchetta e lo riportò su per le scale proprio prima che l’acqua irrompesse dalla parte superiore della porta. Lottò perché voleva correre verso le grida della madre e della sorellina che erano fuori. L’acqua salì in fretta entro la stanza; anche la nonna lo afferrò stretto; fu portato di sopra. Si arrampicò sull’abbaino e urlò per quello che vide. Una montagna di blocchi di ghiaccio urtava contro la casa, che scricchiolò tutta ed ebbe violenti scossoni che ruppero le travi del tetto e fecero cadere le tegole. La campana suonava a martello; si udiva il sindaco gridare.

Sul tetto c’erano uomini che cominciarono a colpire la finestra con le accette e ne fecero saltare il telaio. Una grossa mano lo afferrò e lo trasse fuori attraverso il buco; venne calato lungo una scala a pioli e cadde sul fondo della barca. Dappertutto vedeva ghiaccio, ammassato, rovesciato, spinto via; laggiù era il campanile e qualche tetto, ma da nessuna parte la terra, né la diga. Si alzò in piedi e cercò con lo sguardo: non c’era altro che acqua e ghiaccio; gente che piangeva e uomini che gridavano e dappertutto bovi che muggivano travolti dall’inondazione.

La zia se lo strinse forte al petto sotto il mantello, gli coprì la testa dicendogli: zitto! zitto! sta buono! La nonna gridava con le mani al cielo: O Signore, Signore, che abbiamo fatto di male?

Brevi note

  • Sullo scrittore Arthur van Schendel L’uomo dell’acqua è disponibile una pagina informativa qui.
  • Arthur van Schendel L'uomo dell'acqua

    1a edizione, 1933.

    Fonte: il già citato fiorileggio Antologia delle letterature del Belgiuo e dell’Olanda. Milano: Fratelli Fabbri, 1970. pp. 295-300.Il frammento è stato tradotto da Gabriella Antonelli dall’edizione: Arthur van Schendel, De Waterman, L’Aja: Nijgh & Van Ditmar, 1961¹¹, pp. 20-27. Oltre a questa parziale non risulta una traduzione del romanzo intero.

  • La prima edizione è del 1933. Si può leggere il romanzo nella versione originale qui.